Dopo
l’antesignano progetto napoletano ideato e promosso da Cesare De Seta nel
quinquennio 1981-85, il caso milanese dell’Archivio
dello Spazio si è imposto come il più significativo modello italiano di
questa tendenza, che ha visto impegnati per dieci anni in un unico progetto
unitario – definito da Roberta Valtorta e dall’architetto Achille Sacconi
– numerosi fotografi nostrani nell’intento di codificare o ricodificare in
immagine la facies di diversi paesi
dell’hinterland milanese, secondo coordinate di riferimento insieme
referenziali e autoriali, riprese poi da altre numerose iniziative pubbliche che
hanno guardato anche al precedente bolognese di Paolo Monti.
Hanno
preso parte all’iniziativa milanese alcuni fotografi del capoluogo piemontese
– Bruna Biamino, Vittore Fossati, Luigi Gariglio, Fulvio Ventura – che,
insieme ad altri torinesi ugualmente impegnati sul medesimo fronte – come ad
esempio Piergiorgio Sclarandis, Patrizia Mussa, Enzo Obiso, Paolo Balbontin e il
gruppo Il Terzo Occhio – hanno evidenziato, pur nell’implicita
differenziazione delle proprie ricerche, i poli opposti della tendenza
paesaggistica del periodo, tesa nello sforzo costante di una trasparenza dello
sguardo in grado di rilevare freddamente i dati oggettivi della ripresa, ma ciò
nonostante sempre autoriale, proprio nella misura in cui la volontà dichiarata
della discrezione dello sguardo è stata puntualmente tradita e contraddetta dai
risultati, e specie da quelli in cui i vari fotografi sono riusciti ad
attingere, grazie alla trasfigurazione formale, a una lettura fortemente
personalizzata dei luoghi indagati, in cui convivono insieme i segni storici di
civiltà più o meno remote e quelli del postmoderno, dell’attuale società
dei consumi e dei suoi segnali omologanti. […]
Non a
caso la grande forza della fotografia continua ad essere la sua ambiguità, la
sua capacità di mantenersi in bilico costante fra la denotazione più discreta
e la possibilità di assumere, nel tempo, le più variegate connotazioni; in un
mondo completamente plasmato dalla propria immagine, la fotografia continua il
proprio percorso, incurante del dibattito della critica, fiduciosa solo nel
lavoro dei suoi interpreti.
Fra
questi si collocano anche i paesaggisti torinesi che, come si diceva, sono stati
spinti dalla propria sensibilità del contemporaneo a mantenere un rapporto
aperto, continuo e quanto mai dialettico con le situazioni indagate.
Nei loro
spazi l’uomo, materialmente assente, viene costantemente suggerito come
presente grazie ai segni e alle tracce che egli ha saputo scrivere nel
territorio, nell’architettura di edifici eccellenti o minori, nell’ordine
geometrico dell’organizzazione urbanistica, nell’ortogonalità di certi
allineamenti stradali, nell’apertura di certe piazze, negli svincoli delle
moderne autostrade, nell’edilizia dei quartieri di bordo, nella realtà di
frontiera della metropoli postmoderna, nella villa suburbana come nel palazzo
signorile di città; segni e tracce che rimandano necessariamente all’uomo,
alla sua concezione dell’habitat, al suo orizzonte culturale, all’evoluzione
del gusto e delle esigenze di vita indotte nel tempo dalle trasformazioni
economiche, culturali e antropologiche, in un’umanizzazione sempre differente
e differenziata del paesaggio artificiale, in cui viene a crollare il principio
dell’idea o della trovata – episodica, anche se geniale – cara alla
retorica amatoriale, dando spazio alla forza consapevole e ben strutturata del
progetto. […]
Lasciandosi
alle spalle le primitive pulsioni per il paesaggio naturale di Viaggio
sul Po nel Ferrarese, Giorgio Avigdor già negli anni Settanta è andato
definendo con antesignana precocità un’idea e un concetto precisi di ambiente
urbano che sono cresciuti in lui, direi, per un’innata propensione, alimentata
nel tempo dalla laurea in architettura e dal giovanile alunnato con Carlo
Mollino, principe torinese della riflessione sul mezzo fotografico, autore
particolarmente attento, com’è noto dai suoi Ritratti
ambientati, anche ai microcosmi domestici e alla loro improvvisa,
“incantata” rivelazione. […] Il tema della città, ripreso e sviluppato da
Corsi d’acqua a Torino (1978), si è poi emblematicamente
allargato a un’indagine più sofisticata e diretta degli aspetti culturali
dell’habitat umano con Vita e cultura
ebraica (1983), una mostra in cui l’autore ha cominciato per così dire
anche una più personale ricerca di se stesso e delle proprie radici culturali,
storiche e umane, implicitamente sottesa alle più vaste vicende “della scena
dell’esistenza quotidiana del vecchio mondo ebraico” piemontese nei secoli
XVIII e XIX.
Se con
questi lavori Avigdor si pone come antesignano della ricerca paesaggistica degli
anni Ottanta, altrettanto si può dire di Interno (1975) che sotto certi aspetti preannunzia sia gli interessi
per la figura umana, sia il minimalismo del frammento, sia infine quel
soggettivismo della prima persona e della sua presenza che, nella loro accezione
di oggettivarsi di una condizione umana, sono diventati centrali nella più
recente fotografia, torinese e internazionale, degli anni Novanta. […]
Se le sue
prime ricerche scrivevano le vicende dell’uomo e degli uomini che hanno
pensato e realizzato le forme sempre diverse dell’architettura a imperitura
memoria della cultura di epoche passate, nelle quali ancor oggi ci riconosciamo
e ci identifichiamo, con movimento analogo e coerente, lo spazio intimo della
casa diventa luogo epifanico per eccellenza di un’esperienza interiore e del
tutto particolare attraverso cui l’autore identifica l’unicità irripetibile
del proprio, individuale destino di intellettuale e di uomo. Ma per Avigdor la
propria storia personale e quella della fotografia procedono parallelamente,
quasi tenendosi per mano; ecco che insieme alla maieutica dei luoghi egli va
parallelamente indagando – e non potrebbe essere altrimenti in epoca ancora
concettuale – alcuni specifici della fotografia, quelli ritenuti più idonei
alla propria ricerca: la serie e la luce. […]
La
straordinaria conoscenza della storia e delle tecnologie di un tempo, espressa
attraverso le mostre e i contributi critici, riversata anche, a piene mani,
nella didattica all’Accademia Albertina di Belle Arti, non è stata fine a se
stessa; è anch’essa entrata nella storia del percorso di Avigdor per rimanere
come eco soffusa nel lavoro dei suoi allievi migliori.
Fra
questi un posto di spicco spetta a Enzo
Obiso che con India e Invito
rivela una straordinaria attenzione per gli scarti di significato fra
insiemi e frammenti di una medesima realtà, sfruttati con sensibilità e grande
maestria per costruire percorsi visivi di conoscenza in cui, secondo il senso più
profondo dell’insegnamento del proprio maestro, troviamo tra loro affiancati,
senza soluzione di continuità, paesaggi naturali e artificiali, figure di
esseri viventi – siano essi animali o persone – e sorprendenti figurazioni
fantastiche, che spesso decorano le facciate interne ed esterne dell’edilizia
popolare dell’India. L’insieme di queste immagini, che tentano anche un
confronto diretto fra forme umane e particolari architettonici, sono dotate di
una bellezza intrinseca che fa tutt’uno con l’oggettività della bellezza
dei siti lontani, visitati nei suoi viaggi dall’autore, in un’esaltazione, a
volte metafisica, della magia dei luoghi. La caratteristica più significativa e
interessante dei due lavori risiede tuttavia nella mancanza di una scelta
precisa fra l’opzione paesaggistica e quella umana, il che equivale a
sottolineare come, nell’attuale scavalcamento dei generi, le due tendenze
nient’altro sono se non le due facce di una medesima medaglia, un modo diretto
e spontaneo di guardare alla realtà, a tutta la realtà, a tutte le poliedriche
e infinite forme del suo apparire, con l’unico scopo di approfondire il
rapporto dialettico che lega l’uomo e il suo mondo interiore alla storia e
alla natura. […]
Sempre
all’India sono dedicate le immagini più note di Piergiorgio
Sclarandis, che esalta il paesaggio artificiale di Chandigarh – la
cittadina del Punjab interamente costruita su progetto di Le Corbusier –
tagliandolo e inquadrandolo nel formato 6x12, com’è noto portato in auge
proprio dai paesaggisti e specie a partire dagli anni Ottanta. Lungi dal
costituire l’omaggio a una tendenza a volte divenuta vuota obbedienza ai
tratti omologanti della moda, la scelta del formato è sapientemente sfruttata
da Sclarandis per meglio capire e comunicare agli altri l’articolazione degli
edifici fotografati e di evidenziare al contempo le complesse relazioni spaziali
e funzionali che intercorrono fra architettura e uomo, fra progetto e modalità
dell’abitare. L’autore sottolinea e in un certo senso esalta lo
straordinario armonico incontro che Le Corbusier è riuscito a stabilire, non
certo con la tradizione architettonica dell'Oriente, ma con la sua filosofia e
soprattutto con il rapporto vita/morte che così radicalmente la definisce nella
sua dimensione spirituale, diversa e incompatibile con qualsiasi concezione
occidentale. Se è vero che il rispetto di Le Corbusier per le radici della
cultura locale ha trovato, com’è noto, il proprio ritorno nel rispetto che
gli abitanti di Chandigarh hanno riservato agli spazi surreali e metafisici
delle architetture cittadine, le immagini di Sclarandis si pongono sulla
medesima lunghezza d’onda; da una parte lasciano infatti tutto lo spazio
necessario all’effusione mistica dello spirito dei luoghi e al racconto delle
sue vicende, dall’altra, con grande e spontanea evidenza, esaltano la propria
natura di immagini e il personalismo di un’interpretazione decisamente forte.
[…]
Una
concezione non dissimile dell’importanza autoriale della lettura domina anche
la ricerca di Patrizia Mussa che –
favorita da un’intelligente committenza sia pubblica che editoriale – si è
dedicata all’indagine di particolari tipologie architettoniche che, con le
proprie variazioni sul tema, rinviano con immediate liaisons
alla specificità culturale e alla particolare aura
storica dei territori indagati, anzi ne condensano i più autentici valori del
gusto, del vivere e dell’abitare. Tipico esempio di questa straordinaria
capacità dell’autrice di catturare nel particolare la civiltà di intere
epoche sono state le campagne fotografiche dedicate ai teatri storici del
Piemonte e al Barocco, quest’ultimo visitato nel fasto di dimore signorili
prevalentemente torinesi, in immagini in cui la leggerezza aerea del disegno,
quasi senza peso, dei vari decori architettonici e di facciata fanno tutt’uno
con il gioco e l’iperbole intellettualistica del Settecento. […]
Al di là delle ipotesi generali di lettura della storia che qui si formulano, è indubbio che anche la fotografia, secondo i vaticini di Lemagny, si è avviata, specie negli anni Novanta, a un recupero della materia e della corporeità che sembrava aver definitivamente perduto nel periodo concettuale, ritornando ad affrontare anche il problema della forma che, storicamente parlando, è elemento imprescindibile di tutte le tensioni espressive volte alla comunicazione.[...]
L’interesse
slitta dall’azzeramento dei singoli segni su cui aveva indagato Mulas al
piacere esuberante della forma e alla produzione di immagini che sfruttano
contemporaneamente tutti i molteplici segni del linguaggio fotografico con una
disinvoltura e una padronanza che si alimentano della nuova sicurezza di sé che
il mezzo ha maturato grazie al Concettuale, ai presupposti teorici della
linguistica e della semiotica e al proprio indispensabile contributo in tale
ambito estetico. Il breve testo con cui Paolo
Mussat Sartor accompagnò la mostra alla Galleria Documenta di Giovanni
Rimoldi (aprile 1977) contiene precisi agganci a questa nuova situazione e,
ponendosi come indice torinese di un atteggiamento che cambia di segno, lavora
con estrema consapevolezza critica e con gioia creativa sulla radicalizzazione
dello scollamento che intercorre fra reale e immagine, individuando nella forma
e nei modi della rappresentazione, più che non nei contenuti iconici,
l’essenza dei propri messaggi e la radice estetica che, in tutti i tempi, ha
sempre attraversato l’arte.
Fra le diverse serie di immagini – di ritratto, di viaggio e di lettura dello
spazio scenico teatrale – che egli espose nella mostra del 1977, quella
dedicata all’analisi ravvicinata di frutti sezionati e ingranditi assume un
significato particolarmente emblematico di questo slittamento. L’autore
infatti realizza le proprie immagini avvalendosi di forme linguistiche continue,
si mantiene, in un certo senso, quasi al livello di quella semplice denotazione
che, come forma più elementare del rapporto reale/immagine, era stata usata da
artisti come Kosuth – come già da Picabia (1921) e Magritte (1929) –
unicamente per nominare la cosa e denunziare la presunta relazione naturale che
il senso comune stabilisce fra immagine (verbale o iconica) e realtà. […]
Come già era avvenuto per il peperone di Weston che esibisce la propria
appartenenza alla categoria vegetale nello stesso momento in cui la trascende
per significare l’assoluto della forma, così avviene per i frutti di Mussat
Sartor che affidano però il proprio traslato iconico non alla resa del volume e
alla sua definizione chiaroscurale, ma alla trascrizione/traduzione della
tridimensionalità naturale nella bidimensionalità del foglio che l’immagine
adopera come supporto.
Attraverso
queste strategie la fotografia inizia a battere una strada che percorrerà poi,
con maggiore chiarezza, nel corso del ventennio successivo. I fotografi, forti
della nuova consapevolezza di sé e delle esperienze fino ad ora maturate,
cominciano cioè ad assumere una posizione critica e di aperto rifiuto rispetto
all’immagine postmoderna elaborata e imposta dalla nuova industria culturale
dei massmedia, nel tentativo di riappropriarsi del significato della cosa in sé
e di specificare inoltre il rapporto personale che essi stabiliscono con la
realtà osservata, la direzione in cui si muovono, le motivazioni che li
spingono e li animano, i percorsi conoscitivi che essi hanno seguito e adottato.
[…]
Com’era
naturale, la fotografia dell’ultimo decennio ha fatto tesoro delle esperienze
estetiche di tutti quei movimenti che, mantenendosi a debita distanza
dall’intellettualismo acceso e unidirezionale di certi autori concettuali,
hanno posto al centro dei propri interessi non solo la vita e la datità
oggettuale delle cose, ma anche le pulsioni del desiderio che spesso poggiano
sulla più assoluta indeterminatezza ed evanescenza iconica, ma anche, come nel
sogno, sul polo opposto dell’iperbole surreale di elementi fra loro incongrui,
ma sempre perfettamente e retinicamente definiti nella loro lucida e invadente
oggettività simbolica. Al di là di un riferimento di fondo a Diane Arbus,
figura centrale di tutto ciò che è umano, numerose sono infatti le connessioni
che, come nel resto del mondo, è possibile stabilire fra la nuova fotografia
torinese e la Pop Art, la Body Art, la Narrative Art, l’Iperrealismo, il Nuovo
Realismo, la Nuova Figurazione, la Figurazione libera e le varie mitologie della
quotidianità, con suggerimenti aggiuntivi e più specifici della lezione,
sempre attuale, di Robert Frank e di William Klein, ma anche e soprattutto di
Jerry Uelsmann, Duane Michals e Robert Mapplethorpe. […]
Come si
è già accennato, nella sintesi storiografica che qui si propone è sembrato
opportuno dedicare maggiore e più ampio spazio di analisi agli aspetti
variegati, multiformi ed estremamente complessi attraverso cui si articolano a
Torino gli interessi per la figura umana, in quanto spinti dalla constatazione e
dalla considerazione che, a differenza di ciò che è avvenuto per il paesaggio
urbano, il capoluogo piemontese, più di qualsiasi altra città italiana, per
coerenza, quantità di dati e qualità dei risultati, ha offerto e continua a
offrire contributi di notevole livello, anche internazionale, alla formulazione
di questa tendenza ancora in fieri e
che, pur nella sua discontinuità referenziale, si ricollega, come si è già
sottolineato, alle pulsioni paesaggistiche del decennio precedente. [...]
La
partecipazione e il coinvolgimento alle particolari vicende che Paola
Agosti (già negli anni Settanta) pone in immagine anticipano, con
notevole sensibilità, la successiva tendenza degli anni Ottanta, e soprattutto
del decennio successivo, a porre l’uomo e la sua esistenza al centro
dell’attenzione e della ricerca a noi contemporanea. […] Fra gli interessi
di riflessione di Agosti ritroviamo infatti l’inurbamento, l’emigrazione, il
rapporto fra spazio e persone e fra natura e uomo, problemi che, resi universali
dal traslato della generalizzazione, se ne allontanano poi per una sorta di
soggettivismo, che spinge l’autrice all’analisi ben contestualizzata di
particolari esperienze di casa propria: l’emigrazione dei piemontesi in
Argentina, la solitudine e la marginalità degli abitanti di alcuni paesi
agricoli delle valli del cuneese, la nuova alleanza Nord Sud che si esprime, fra
l’altro, nell’afflato umano di uno splendido ritratto di una coppia di
contadini, il cui punctum, emblematicamente
e non a caso emotivo, sta in quel dito che una moglie calabrese affonda nella
mano del proprio consorte piemontese, quale segno di una complicità, di un
affetto e di una solidarietà assoluti. […] I messaggi finali delle intense
immagini di Agosti sono dovuti a una sostanziale sospensione di giudizio che
l’autrice affida appunto al continuo e voluto sovrapporsi di tensioni diverse
che – a volte in opposizione fra loro, altre semplicemente in dialogo –
implicano un continuo gioco di rispecchiamenti e di passaggi dalla prima alla
terza persona, dal soggettivismo all’oggettivarsi dei temi affrontati, da una
lettura testimoniale e partecipe dei fatti indagati a una più diretta e quasi
tattile epifania della datità oggettuale del mondo posto in immagine. […]
Personaggio
quanto mai emblematico degli scarti generazionali che intercorrono fra la
ricerca degli anni Settanta e quella del decennio successivo, è Mario
Monge, noto soprattutto per i suoi intensi ritratti fotografici, ancora
sostenuti dal forte individualismo dei personaggi ritratti che, lungi
dall’abdicare al proprio presenzialismo intellettuale, lo esibiscono con tutta
la pregnanza di una consapevolezza etica che solo l’intelligente ritrosia di
chi ritrae e di chi è ritratto riesce a far passare inosservata. Quella di
Monge è però una posizione e una disposizione mentale isolata, individuale
piuttosto che collettiva, quindi e ben presto contraddetta dalle caratteristiche
linguistiche della fotografia di reportage degli anni Ottanta, decennio in cui
si assiste anche a una profonda trasformazione della figura e del ruolo del
fotografo. […]
Un
contributo di eccezionale rilievo è stato offerto dal Museo d’Arte
Contemporanea del Castello di Rivoli con la mostra Post
Human (1992), spia di una sentita sensibilità critica della contemporaneità
e punto di riferimento più vicino per l’esplosione definitiva degli interessi
torinesi intorno alla figura umana che, traendo la propria linfa vitale dal
cortocircuito fra archetipo e topos,
si mostrano figli più che legittimi del postmoderno, anche per il citazionismo
che, già esperito in fotografia da numerosi autori e imperante nei campi della
pubblicità e della filmografia, affiora con prepotenza anche nel lavoro della
più giovane generazione torinese, con accezioni che, come si vedrà, tendono a
elidere le significazioni più comuni e omologanti dei sistemi massmediali.
Giulia
Caira propone alla nostra attenzione un processo linguistico di
autoriflessione sulla fotografia, nella misura in cui l’autrice diventa
contemporaneamente soggetto ed esecutore materiale delle proprie immagini.
Attraverso l’uso apparentemente solo narrativo della serie, Caira mette in
rassegna e analizza i vari e molteplici aspetti della femminilità, che,
mescolandosi con una sana e propositiva voglia di vivere e di rapportarsi
all’esterno – evidenti nel sorriso, negli sguardi diretti e
nell’esibizione della propria corporeità – non presuppongono un’opzione
precisa per nessuna definizione esistenziale del sé, ma rimangono piuttosto
sulla soglia allusiva di una difficile ricerca della propria identità umana.
Nell’equilibrio instabile fra l’essere e l’apparire, fra l’io e il me,
lo spazio e lo scenario di questo processo di autodefinizione interiore, lontano
da ogni clamore esterno, sono coerentemente quelli delle mura domestiche
dell’ambiente in cui vive; la sotterranea, appena accennata, teatralità dei
set volutamente sommari diventa distanza e sublimazione oggettivata
dell’espressione, con impliciti quanto sfumati accenni alla scena della vita e
al suo infinito possibilismo. Sembra che l’autrice voglia ricordare a se
stessa e agli altri che solo partendo dall’esperienza del già noto si può
sperare di sondare l’intrigato groviglio delle contraddizioni e dell’ignoto
che ciascuno di noi si porta dentro, in un’implicita individuazione della
fotografia come mezzo più idoneo a significare e a esprimere i contenuti umani
di questa eterna problematica e nella conseguente, finale autopromozione della
fotografia alla propria autonomia estetica. [...]
Giocando sul piano linguistico, con un colore acceso e fortemente
tradotto – non solo grazie all’uso delle luci e di pellicole idonee, ma
anche attraverso il trucco e vari interventi pittorici sul corpo – Caira ci
introduce alla propria storia intima e, usando essenzialmente il traslato
espressionista, ora esibisce tutte le grazie e le malie del proprio femminino,
ora, quasi memore della Arbus, le nega e le cancella, nella carne viva del
proprio corpo e del proprio volto, con la distorsione ottica degli obiettivi
adoperati, nella finale indicazione metaforica di inconfessabili e non graditi
lati oscuri, mostruosi, indesiderati, ma non spuri perché possibili, accolti
comunque nella propria immagine globale. […]
Al raffronto/scontro con i modelli della contemporaneità si contrappone in Silvia Reichenbach un citazionismo da altre epoche che – presente anche in contesti non torinesi – lungi dalla volgarità bassa del linguaggio dei mass-media si volge a individuare momenti della storia dell’uomo e della cultura dell’immagine in cui, come nella ricerca dell’autrice, l’interiorità dello spirito o il rapporto fra l’armonia terrestre e quella dell’universo sono stati posti come centrali e fondanti dell’espressione figurativa. Come in altre fotografe dell’ultima generazione, il tema fondamentale è ancora una volta la ricerca del sé, con una maggiore accentuazione però del più vasto e ambizioso problema della conoscenza, non già per raggiungerne l’essenza, ma solo possibili parziali e momentanee certezze da cui ripartire con maggiore maturità e coraggio, nella consapevolezza costante del senso di limitatezza dell’umana comprensione delle cose, delle persone e del mondo.[…] Le suggestioni quattrocentesche si fanno apprezzare in trasparenza anche nell’indubbia vicinanza di Reichenbach allo spiritualismo inglese dei Preraffaelliti, con punti di contatto più evidenti con la Cameron che ne abbracciò in pieno la poetica, intesa nella sua accezione più profonda di esperienza, insieme estetica ed esistenziale. Al di là di precisi e percorribili paragoni, l’invito al silenzio per ascoltare la voce interiore della propria anima e delle proprie emozioni per dominarle e porvi ordine e misura, sembra porsi quasi come citazione globale dai testi teorici sul sublime di Anna Jameson e di Elisabeth Eastlake, cui la grande protagonista della fotografia vittoriana ampiamente attinse. L’umiltà e la fissità degli sguardi apparentemente ciechi, ma in effetti contemporaneamente aperti sia all’esterno che all’interno della propria anima, trovano allora corrispondenza simbolica nell’uso dei gigli e più ancora nell’ambientazione dei ritratti in scenari naturali, ora aperti a dismisura – come quelli del deserto del Sinai – ora angusti e delimitati da spalliere di verde che chiudono lo spazio sull’orizzonte del già noto, alla costante ricerca di quell’unità armonica fra natura e uomo che appare oggi spezzata e non più recuperabile.[…]
Per Roberto
Goffi il raffronto delle problematiche individuali con quelle più
generali dell’uomo è condizione necessaria ma non sufficiente per impostare
il problema della conoscenza e soprattutto quello di una possibile attribuzione
di senso alla vita; il suo io, nel confrontarsi con la storia, trova risposte
tutt’altro che rassicuranti e, nel pessimismo che ne consegue, trova rifugio
salvifico solo nell’amore, quell’amore totalmente disinteressato che –
come indica Crocefissione in rosa –
il Cristo ha mostrato nei confronti dell’intera umanità con il sacrificio
della propria vita sulla croce. Il titolo dell’opera appena menzionata –
realizzata in un rigoroso chiaroscuro – ne indica chiaramente la natura non
referenziale, costringendo inevitabilmente a una lettura allusiva e simbolica.
La complessa figura in croce non è infatti quella del Cristo, e neppure
maschile; gli espliciti riferimenti corporei catalizzano infatti l’attenzione
sulla donna, non su una sola, scelta quale tramite o pretesto epifanico della
figurazione, ma su una molteplicità di figure che, sovrapponendosi
nell’impersonalità di volti privi di individuali caratterizzazioni
fisionomiche, esprimono la coralità di un sentimento e di un patire tutti
femminili e insieme di un amore elargito sempre senza riserve, con generosità
che non aspetta ricompensa; un patire lungo come la storia dell'umanità e dalla
continuità ininterrotta, rinnovato in tutti i possibili tipi di violenza e oggi
divenuto quanto mai tangibile per noi italiani per i genocidi etnici della
vicina ex Iugoslavia. Le modalità della comunicazione si affidano oltre che al
linguaggio fotografico a quello letterario della parola scritta, non ricusano
l’utilizzo di materiali altri ed esibiscono una precisa volontà di creare un
oggetto d’arte esteticamente significante; l’effetto finale, tipico delle
tensioni più umanamente impegnate della fine del millennio, è infatti quello
di un superamento netto e radicale della barriera fra le arti, con la scelta e
l’opzione di forme raffinate e colte, quanto mai lontane dalla volgarità
piatta e banale della comunicazione via etere. […]
Su un
versante solo apparentemente opposto si muove il raffinato lavoro di ricerca di Maura
Banfo che, più umilmente, ma con grande efficacia espressiva e
linguistica, prende le mosse, nel proprio processo conoscitivo,
dall’osservazione ravvicinata, esaltata dal grande formato, di comuni oggetti
della quotidianità per approdare a più sottili informazioni su quel corpo
interiore da cui scaturisce il proprio lavoro. Le realtà minime osservate –
sempre ed esclusivamente indumenti femminili -, come accade per le immagini
dedicate al paesaggio, ai problemi della percezione, al reportage e alle
installazioni/sculture, non cancellano affatto quella costante introspettiva che
caratterizza l’attuale fotografia torinese e che domina in maniera più
evidente nel presenzialismo dell’autoritratto; direi che anzi la potenziano,
mostrandoci gli scarti che intercorrono fra percezione ottica e sguardo
fotografico, quest’ultimo inteso essenzialmente nella sua accezione estetica
ed epistemologica di primo contatto conoscitivo del mondo, capace di prime
formalizzazioni significanti, grondante di tutta la referenzialità dei modelli
indagati e, insieme, carico della linfa vitale dell’emozione, implicita
nell’atto del guardare. […]
Monica
Carocci ci propone la smaterializzazione delle cose, delle persone e
delle architetture secondo quella tendenza alla evanescenza del particolare che
possiamo accostare agli effetti flou
del mosso di tante fotografie di Klein e che immette nella fotografia la
discontinuità degli sguardi, quasi a sottolineare – come Kurosawa in Rashomon
– che non esiste la verità, ma un numero infinito di verità, tante quanti
sono stati coloro che hanno partecipato di un dato evento e che hanno cercato di
restituirlo, come testimoni perfettamente attendibili, con la sincerità del
proprio sguardo. Il suo lavoro che senza infingimenti si pone da subito come
“ipotesi di finzione pura”, allude a “un ambiguo e provocatorio insieme di
condizioni percettive e psicologiche, un corpo visivo nel quale non si riescono
a distinguere le problematiche estetiche della rappresentazione da quelle
dinamiche emotive […] risultanti dal conflitto fra oggettività e soggettività”
(G. Romano).
Bruna
Biamino, che da tempo lavora con serietà d’impegno – insieme
professionale e di ricerca – nel settore dell’industria e che vanta varie
esperienze nella lettura dello spazio urbano, ha ultimamente rivolto la propria
attenzione ai paesaggi d’acqua della zona dei laghi, dei dintorni del Sangone
e di diversi centri del cuneese e del vercellese, toccando con l’uso del
colore le corde di un intimismo lirico che si impone come contributo iconico di
particolare rilievo nella più recente fotografia torinese. […] I toni alti,
già usati da Ghirri per la sua ricerca concettuale sulla convenzionalità dei
linguaggi, mutando completamente di significato acquistano, nelle immagini cui
ci riferiamo, la doppia valenza di restituzione emozionale dello “spirito dei
luoghi” presi a modello e di apertura massima dell’immagine ai molteplici,
fluidi e indefinibili significati del mondo delle apparenze. […] Già nel 1985
Paolo Fossati, nell’analizzare alcune fotografie di oggetti in interno della
Biamino, ne aveva sottolineato lo spessore polivalente come centro d’interesse
sul piano della comunicazione estetica. La logica delle regole che governa il
linguaggio della fotografia e che assorbe nella propria simbologia
l’attenzione rivolta ai referenti non esclude la componente emotiva ed
esistenziale del valore testimoniale dello sguardo che indaga e scruta la realtà,
nello sforzo di conoscerla e di riconoscersi. Per questo suo aspetto di immagine
forte e insieme discreta, il lavoro della Biamino può essere visto come
cerniera significante fra fotografie apparentemente impegnate su piani
totalmente opposti e divaricati; quelle che, con la presenza della figura umana,
più direttamente pongono al centro del proprio interesse il problema del
'conosci te stesso', e quelle invece che sembrano fuggire la centralità di
questa problematica per interrogarsi sui problemi della percezione.
Vittore
Fossati, con una virata brusca e solo all’apparenza incoerente,
approda con Belle Arti
all’insignificanza epifanica e frantumata delle piccole cose della quotidianità
domestica gettandosi alle spalle le già menzionate ricerche sul paesaggio per
cui è soprattutto conosciuto. L’orizzonte del già noto, il suo dominio, i
frammenti su cui si appunta l’indagine e che sono costantemente inseriti in
una forma circolare – per esplicita indicazione dell’autore – diventano
microcosmi carichi di possibilità rivelatrici, ideali postazioni
d’osservazione per chi sappia porgere con umiltà i propri sensi d’ascolto.
Traspare, e non potrebbe essere altrimenti, la memoria delle forme della
conoscenza esperite dall’autore nel precedente lavoro sul paesaggio, evidente
soprattutto nell’equivalenza di significato attribuita ai pieni e ai vuoti
nell’ambito della composizione. Ma lo spazio ampio del paesaggio naturale
richiede un impegno di tutt’altro rilievo rispetto a quello ristretto dello
spazio domestico; tutto diventa più leggero, più facilmente fruibile anche
grazie all’uso della metafora ludica dello scherzo che, a volte, introduce
all’ironia di accostamenti forse assurdi, certo carichi di fantasia. […]
Alessandro
Albert e Paolo Verzone lavorano insieme, ma anche separatamente, fra
Torino e Parigi, con un fotoreportage impegnato che lascia trasparire, nei vari
lavori ultimamente presentati, diverse componenti espressive che sembrano
riferibili alle traiettorie di base dell’attuale cultura fotografica torinese
interessata alla figura. Ne sono prova i leggeri scarti d’inquadratura di Volti
di passaggio che presuppongono a monte la qualità dialettica di uno sguardo
in cui, attraverso svariati tentativi di visualizzazione, è messa da parte ogni
presunzione di sé per ascoltare l’altro e il resto del mondo. Procedimenti
apparentemente analoghi informano di sé la più recente serie Seeuropeans,
anche questa costituita da splendidi ritratti di persone comuni colte sulla
battigia o nelle immediate vicinanze di spiagge fra loro lontane – quelle di
Rimini e di Brighton (1994), di Tylosand e di Nizza (1999) – in cui il tempo
breve e ridotto della posa sembra mettere a fuoco più che l’essere,
l’apparire di quella persona in quel dato momento in cui la nudità la libera,
o dovrebbe liberarla, da ogni tentazione d’uso della maschera e cogliere, come
nel lavoro di Rineke Dijkstra, fra le altre possibili variabili, anche
l’essere ‘altrove’ psicologico del ritrattato, quel ripiegarsi verso
l’interno della propria coscienza, quanto mai evidente nella qualità degli
sguardi insieme aperti e chiusi all’esterno, alla complicità e
all’incontro, ma anche alla loro negazione. La differente gestualità del
corpo nei vari paesi europei indagati, rivelata da scarti minimi, ma
perfettamente apprezzabili, sembra allora divenire, sotto questo aspetto,
metafora e riscatto dei valori individuali contro l’omologazione dei modelli
comportamentali della nostra contemporaneità. […]
Nella
serie di ritratti ambientati, presentati recentemente da Mauro
Raffini in Lo spirito dei luoghi (1999),
la tensione etica e politica da cui, negli anni Settanta, era scaturito
l’impegno del suo reportage, si è ulteriormente approfondita in direzione
umana, ha scandagliato cioè la psicologia del singolo e le sue motivazioni
esistenziali, si è spinta sulla non facile strada di un’attenta analisi dei
rapporti che, nell’ambito della produzione industriale, intercorrono fra i
quadri direttivi e quelli esecutivi. L’individualismo, sempre implicito nel
ritratto, si mescola infatti, senza soluzione di continuità, con una più
sottile ricerca dell’identità sociale delle varie persone ritratte, ognuna
delle quali, indipendentemente dal livello gerarchico delle proprie competenze
lavorative, indica l’orgoglio d’appartenenza al mondo del lavoro, al quale
collabora con precisa consapevolezza delle differenze funzionali del proprio
ruolo e della necessità di tali differenze. Ne nasce un senso di grande
fierezza e di straordinaria dignità umana in cui sembra avvertire in filigrana
ancora il messaggio dell’ottimismo di Paul Strand, che viene però subito
smorzato e quasi contraddetto dall’uso espressionista del colore, acido e
fortemente tradotto, dai toni bassi e irreali. […]
Giorgia
Fiorio, nei suoi numerosi, più che noti e apprezzati lavori, si assume
con coraggio virile il difficile compito di un reportage hard che scruta e cerca l’umanità della persona in etnie diverse
dalla nostra, così come in scenari che pensiamo o immaginiamo distanti dal
nostro e, a volte, dominati dalla logica della violenza. Le sue ricerche sui
campi degli zingari, sui profughi albanesi in Italia, sui Russi, sul mondo del
pugilato (Red Gloves), sulla vita
nelle caserme italiane (Soldati), sui
pescatori solitari del Mediterraneo, sui minatori, sulla Legione Straniera, sui
toreri e sui pompieri, malgrado l’irriducibile peculiarità dei diversi
contesti man mano affrontati e monograficamente indagati, trovano infatti la
propria unità, anche progettuale, nella sensibilità dell’autrice e nel suo
sforzo di stabilire, attraverso un ascolto attento e scevro da qualsiasi
preconcetto o luogo comune, un reale rapporto di conoscenza e di comprensione
umana con persone e ambienti, scelti fra quelli più estranei alle consuetudini
quotidiane che le sono proprie e che ella giustamente presuppone come ugualmente
distanti dalle abituali frequentazioni della gente comune. […]
Con la
serie di fotografie In carcere – un
lavoro iniziato nel 1995 e non ancora concluso – anche Luigi
Gariglio mostra un grande interesse per l’uomo, un interesse che,
almeno per il momento, lo allontana dalle pulsioni per la lettura del paesaggio
urbano dominanti nell’esordio della propria attività di fotografo. […]
L’individuazione nell’alterità del carcerato di quel ‘diverso’ che –
come nella Arbus – è in ciascuno di noi diventa il vero fulcro del lavoro, il
che spinge l’autore non solo a una sostanziale sospensione di giudizio, ma
soprattutto a tenere a bada il proprio coinvolgimento emotivo e a bandire, di
conseguenza, anche l’invadenza espressionista o di altre forme linguistiche
altrettanto forti e ugualmente implicite nelle possibilità traduttive della
fotografia. La grande discrezione autoriale, che Gariglio ha individuato come
chiave di accesso alla realtà diversa dell’altro da sé, poggia
sull’incontro e la complicità partecipe degli sguardi, sulla comune regia
della scena, sull’eliminazione di qualsiasi possibile riferimento ai luoghi
della ripresa, sulla conseguente restituzione della quotidianità e della
‘normalità’ di vita dell’ambiente domestico, sull’uso di un colore
apparentemente naturale ma dai toni leggermente alti che, con la propria
sospensione, assieme agli altri elementi collabora alla concentrazione dello
sguardo, uno sguardo decisamente dialettico, che non prende mai le distanze
dalla concretezza referenziale della fotografia, anzi la sceglie a proprio
fondamento epifanico.
Con Landia
(1997) e con 1:1 Giuseppe Piredda
indaga su particolari luoghi di divertimento della contemporaneità, riprendendo
siti realmente esistenti nella zona del Garda e nei pressi di Ravenna, costruiti
come parchi del tempo libero e dello svago, caratterizzati da attribuzioni
prefissate, ipotetiche, artificiali o fittizie in cui è messa a dura prova, per
noi che guardiamo le immagini che ne derivano, la capacità di distinguere fra
le persone che materialmente visitano quegli spazi e le apparenze, i modelli da
cui quelle apparenze sono mutuate e mimate. […] Nel mondo postmoderno immagine
topica e immagine archetipa – come già da tempo ha sottolineato Baudrillard
– si danno infatti senza soluzione di continuità, nelle loro rutilanti e
poliedriche forme, nella loro sostanziale identità di copie derivate da copie,
nell’omologazione spinta di messaggi che l’eco massmediale amplifica al
massimo ripetendo, per riflesso, la monotonia invariata della propria voce. In
tanta ricchezza visuale Piredda mantiene lo sguardo freddo di uno scienziato,
non esprime giudizi di sorta, si ferma con intelligente ironia al semplice
livello del rilevamento e della rivelazione dei dati della propria esperienza
visiva, lasciando a chi guarda le immagini il campo libero per tutte le ipotesi
interpretative possibili, per tutte le fantasie di cui è capace, per tutte le
conclusioni cui vuole o può arrivare, nell’implicito invito all’utente
della fotografia di collaborare attivamente, con il proprio sguardo e il proprio
giudizio, alla definizione dialettica dell’immagine. […]
Marco
Saroldi, con il recente Corpi
stra-ordinari, sposta la propria attenzione dal presenzialismo scherzoso di
alcune immagini in cui, grazie al mascheramento, proponeva il proprio doppio,
all’osservazione di casi altri da sé, in cui la trasformazione, lungi
dall’essere effimera, momentanea e fittizia, è vissuta, nei casi osservati di
Betti, Marco e Antonella, come mutazione effettiva della propria immagine o
addirittura della propria corporeità sessuale, in una enfatizzazione massima
dell’androgino e della pulsione interiore a vivere una transessualità
polimorfa. […] Saroldi individua le modalità espressive del rito di
trasformazione vissuto dai tre diversi soggetti, accomunati dal desiderio di
visualizzare nella propria facies il
sentimento che essi hanno del proprio io interiore e più autentico, in un uso
combinato del colore e del bianco/nero, in cui si avverte l’eco lontana della
Body Art; il colore, con riferimento esplicito alla fotografia familiare e
turistica e alla loro spontanea ingenuità, consente all’autore di attingere a
una più immediata mimesi naturalistica che fa tutt’uno con la spontaneità
con cui Betti, Marco e Antonella vivono la propria attuale identità corporea;
il bianco/nero, che implica all’opposto un allontanamento dal reale, allude
invece alla gioia di un sogno e di un desiderio finalmente realizzati. La
scrittura, ossia il fumetto, come nella Narrative Art, rafforza il senso
dell’operazione, fa entrare nel racconto le vicende personali di chi è
fotografato e, contemporaneamente, stabilisce una distanza non solo fra i due
linguaggi, ma anche fra realtà e linguaggio, si mantiene in bilico volontario
fra idea e realtà, fra progetto di chi riprende e pulsione esistenziale di chi
è ripreso. […]
Nel
quadro degli interessi pubblici e privati già da tempo presenti nel capoluogo
sabaudo, quali componenti determinanti dell’attuale esplosione del ‘fenomeno
fotografia’, possiamo far rientrare, come spia e rispecchiamento più recente,
anche la nascita (29 ottobre 1998) dello spazio FINE (Fotografia e Incontri con
le Nuove Espressioni) cui hanno dato vita quattro fotografi, ossia Claudio Isgrò,
Gerardo Regnani, Claudio Cravero e Massimo De Pasquale. Il sodalizio, che nasce
dal presupposto dell’abbattimento delle frontiere fra le arti e fra i vari
media della comunicazione contemporanea, si impone all’attenzione a
all’analisi non solo per i lavori dei singoli membri fondatori, ma anche perché
– quasi assorbendo in sé le funzioni una volta svolte, sul piano amatoriale,
dalle associazioni ottocentesche – si propone nelle molteplici articolazioni
funzionali di spazio espositivo, di punto d’incontro fra fotografi di tutte le
età e di tutte le possibili tendenze, di luogo privilegiato di discussione e di
raffronto anche con la giovane critica e, infine, di palestra di studio, compito
cui lo spazio assolve grazie alla costituzione di una biblioteca specializzata
– per il momento, invero, ancora molto esigua – e della parallela raccolta
collezionistica dei portfolio degli autori man mano presentati negli spazi
espositivi della propria struttura, sita nell’ex zona industriale dei Docks
Dora. […] Animatore del gruppo, Claudio Isgrò
ha prodotto nel tempo diverse serie di immagini che hanno viaggiato con i titoli
collettivi di Il ricordo dell’acqua,
Contatto, Paesaggi Infiniti e Incontri,
lavori tutti di grande intensità, che, pur nell’effettiva
diversificazione dei referenti presi a modello, si presentano fra loro come
estremamente coesi e coerenti sotto il profilo della ricerca e sembrano quasi
condurci per mano attraverso l’evoluzione interna del percorso artistico
dell’autore. Isgrò infatti – con o senza ottiche, col gesto o con le
semplici alchimie dei chimici fotografici – cerca e trova, nello sfumato o nel
contrasto dialettico delle luci e delle ombre, l’espressione compiuta di umane
ed eterne tensioni, soprattutto il rapporto con il femminile, con il femminile
che si nasconde in ogni uomo e il dialogo continuo con il proprio io più
profondo, indagato e svelato a se stesso anche negli aspetti sentiti come
indesiderati e considerati negativi. […] Nei propri numerosi lavori Gerardo
Regnani affronta i problemi contigui dell’habitat e dell’orizzonte
umano, riuscendo ad attribuire a queste coordinate, tipicamente antropologiche,
dignità e coerenza anche emozionale d’immagine nel recente A
mia figlia, una ricerca in cui l’alternanza del bianco/nero e del viraggio
seppia, l’uso di immagini tratte dal repertorio visivo delle memorie
dell’album di famiglia, alludono simbolicamente al travaglio della nascita da
parte del neonato e al calore amoroso dell’accoglienza da parte dei genitori;
metafore scelte con grande sensibilità per significare in ultima analisi come
la nascita, ogni nascita, si ponga come rifondazione perenne della vita, anche
in un mondo – quello della nostra contemporaneità – che sembra aver perduto
il senso e il significato dei momenti fondanti del passaggio dell’uomo sulla
terra e della loro intrinseca, primigenia unità con i ritmi della natura. Se Claudio
Cravero, con Una pellicola in
cielo, esplora la realtà torinese visitandola nei suoi monumenti più
famosi, con Fantasmi restringe la
propria indagine alle tracce minime lasciate in appartamenti vuoti da chi ha
vissuto quegli spazi riempendoli con la propria vita, attingendo così da un
lato alla dimensione paesaggistica, dall’altro a quella più decisamente umana
dell’attuale ricerca torinese. […]
Briatta,
Jano, Rapisarda e Candiano affrontano con grande padronanza e sicura
consapevolezza critica ed epistemologica il problema più specifico delle
modalità linguistiche della fotografia, denunziando, attraverso ricerche
affatto diverse e non omologabili fra loro, la convenzionalità sintattica di
diversi specifici, quelli cui essi fanno ricorso per visualizzare appunto il
proprio particolare approccio al medium.
Maurizio Briatta, nelle sue più
recenti Fotografie di paesaggio, mette
in dubbio l’obiettività della fotografia studiando le modificazioni
morfologiche e materiche subite dai referenti realistici a seconda della scelta
della profondità di campo e del piano della messa a fuoco. Il suo intento più
forte è quello di riproporre tout court
la fotografia in quanto quadro e finestra aperta sulla realtà e di focalizzare
polemicamente l’attenzione su una questione che, ritenuta superata dall’arte
moderna e soprattutto dal Concettuale, egli individua come componente portante
dell’attuale ricerca fotografica; le sue immagini, capaci di fondere insieme
il sentimento dell’atmosfera e la corrosione materica dovuta alla generale
luminosità della scena, raggiungono infatti esiti di una notevole suggestione
visiva che non conosce o non riconosce più dicotomia di sorta fra emozione,
forma e impegno concettuale.
La ricerca di Giorgio Jano muove da un
iniziale interesse per la documentazione dell’architettura, soprattutto
barocca, che ha spinto l’autore a scegliere ottiche particolari, non più in
uso e spesso personalmente assemblate a corpi macchina particolarmente grandi,
con un intento filologicamente e criticamente mirato a far coincidere la propria
rappresentazione con la concezione dello spazio elaborata nel periodo storico
indagato. La qualità e la raffinatezza di questo impegno pregresso sono
sfuggite alla critica che, malgrado lo scavalcamento fra i generi della
fotografia, non sempre è propensa a guardare con la medesima attenzione i
contributi cosiddetti documentativi e quelli altrettanto convenzionalmente
considerati creativi. Ultimamente però l’autore, pur rimanendo fedele ai
principi di base di un’indagine sempre scrupolosamente attenta al piano della
convenzionalità linguistica, ha spostato la propria attenzione dall’oggetto
architettura al corpo umano e alla spontanea libertà del suo movimento: la
carica emotiva che ne consegue – che sembra rimandare alle immagini dei
Bragaglia e che appare prossima a quella di altri autori ugualmente impegnati a
lavorare, con diverse modalità e anche con altri media, sul corpo e col corpo
– consente una più approfondita analisi delle intenzioni scientifiche,
fortemente autoriflessive ma insieme formalizzanti, attribuite dall’autore al
fare fotografia.
Turi Rapisarda concentra la propria
attenzione, antropologica e linguistica, sullo scatto e sulla posa, capaci –
come ha osservato Barthes – di trasformare il soggetto e la sua infinita
potenzialità in oggetto definito e privo di vita. Basandosi su una
registrazione del reale quasi retinica, l’autore tende infatti a sottolineare
l’invadenza prevaricante dell’autorialità e contemporaneamente a prenderne
le dovute distanze, stabilendo un’implicita lontananza dalla tendenza
dell’attuale neoimpressionismo, lontananza che si esprime fra l’altro
nell’individuazione dei propri modelli nella marginalità sociale di gente
comune, per antonomasia anonima e priva di un’identità umana che possa essere
oggetto di curiosità o d’interesse massmediale. […] L’uomo, non
l’individuo, non il grido isolato del singolo, ma una particolare condizione
umana di anonima marginalità, riconquistano la propria dignità nella più
recente ritrattistica, di grande respiro, di Turi Rapisarda che, come Pasolini
in Il Vangelo secondo Matteo, avvolge
nell’ombra tutto ciò che è superfluo o poco interessante, tutto ciò che
potrebbe irretire lo sguardo e distogliere la nostra attenzione dall’incontro
con lo sguardo diretto e proteso alla comunicazione delle persone ritratte.
[…] Più spesso – si vedano soprattutto Piante
e Trespoli – Rapisarda, utilizzando
il linguaggio ricco e articolato della serie, opta però, piuttosto che per il
ritratto classico, per una ripresa tergale dei suoi modelli, mostrandone
emblematicamente lo sforzo per aderire alla posa e alla volontà del fotografo,
anzi indicando proprio nella posa e nella sua astratta fissità, la personale e
inevitabile perdita dell’identità di soggetto subita dalle varie persone
fotografate, che trasformandosi in oggetto visualizzano l’impersonalità
sociale della propria identità umana e fanno slittare l’attenzione sullo
scatto e la posa. […]
Angelo Candiano, facendo rivivere nei
propri cromatismi spenti l’effetto di alcune tecnologie delle origini, con una
ricerca che come quella concettuale è oltre che linguistica anche storica,
arriva a individuare il nocciolo epistemico dei significati ottici e
fotosensibili del processo fotografico e a sottolineare come il prodotto
artistico, e soprattutto la scelta autoriale fra diversi e possibili parametri
espressivi, non prescinda mai da un’analisi dei processi su cui esso si fonda.
La varietà infinita dei toni fra il bianco e il nero assoluto, la scelta
insistita di alcuni referenti come la carta,
la scatola, il libro/trattato – elementi che corrispondono a un
sostanziale azzeramento o a un minimalismo assoluto del dato reale – includono
e sottintendono la varietà di tutte le immagini possibili, quelle realizzate da
altri autori interessati alla realtà piuttosto che a quell’analisi
autorappresentante del linguaggio fotografico che Candiano ha posto al centro
dei propri interessi con modalità che ricordano Paolini. […]
Gli
esempi analizzati testimoniano, nella ricchezza e nella poliedricità delle
problematiche e dei temi affrontati, l’estrema vitalità della ricerca
torinese volta agli interessi umani, focalizzando l’attenzione soprattutto
sulla confusione fra archetipo e topos.
[…]
Nella misura in cui la fotografia torinese affronta questo nodo problematico
avvalendosi di modalità sempre diverse – ora prendendo cioè atto del
discorso critico implicito nell’accavallamento fra archetipo e stereotipo, ora
tentando di negarlo e di raggirarlo, ora, invece, cercando di risolverlo
inventando nuovi approcci e parametri di giudizio – mostra di vivere a pieno
la contemporaneità e di essere in grado, con la propria pratica, di offrire
contributi autonomi al dibattito sempre perenne dell’espressione. Pur nella
consapevolezza di trovarsi di fronte a un enigma critico, insolubile o di
difficile soluzione, le proposte più numerose suggeriscono come formula
d’uscita da questo labirinto di specchi il recupero dell’idea interna alla
forma, un recupero della somiglianza dell’archetipo e dei suoi significati più
profondi, capace di andare oltre la vuota esteriorità del referente e, insieme,
di sfruttarne la datità, come momento d’incontro con la realtà e soprattutto
come epifania di emozioni, sentimenti e idee personalmente esperiti.
La ricerca torinese dell’ultimo ventennio si offre infatti essenzialmente come
esercizio estetico, nell’accezione di primo livello della consapevolezza
conoscitiva, implicita nell’etimologia del termine; il fotografo di fronte
allo spettacolo delle cose, sfruttando la vista e l’atto del guardare,
selezionando determinati elementi oggettuali, esaminandoli, sottoponendoli alla
propria attenzione e disponendoli in ben determinate relazioni – perfettamente
autonome rispetto al reale – coagula ed esprime il proprio sguardo in
immagine, ossia in un’attribuzione di senso e di struttura logica a tutta
quella serie di sensazioni empiriche, che egli ha istintivamente vissuto a
livello personale. I vari fotografi, nel vuoto di valori della contemporaneità,
ognuno per proprio conto, tentano di dare le proprie risposte all’incognita di
sempre, chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. Un problema che alberga con la
stessa urgenza in ognuno di noi e che determina, con le risposte via via fornite
come ipotesi di percorribilità dagli autori, l’interesse della loro ricerca
umana e il nostro inevitabile coinvolgimento, anche emotivo, di partecipazione.